Ponti senza costruttori

In Africa e India ci sono ponti più vecchi di 100 anni, ma anche stazioni, canali, viadotti, binari, gallerie, tutti in stile “coloniale”, tutti fabbricati dagli inglesi. Ma queste infrastrutture sono talmente tante, così diffuse, così ben conservate che è difficile credere alla possibilità che siano stati gli inglesi a costruire, solo in Africa e India, più di 50.000 ponti, anche in zone inospitali, come giungle e montagne sperdute. Enormi progetti logistici, di cui, però, non ci sono foto o documentazioni riguardanti la costruzione. Senza disegni o progetti di come siano stati innalzati pilastri di 70-80 metri di blocchi di pietra e mattoni o indicazioni sui luoghi di provenienza dei materiali, degli stabilimenti di lavorazione e preparazione, del trasporto, etc. Alla fine dell’800 la fotografia era già molto sviluppata e, di fronte a una tecnologia così avanzata, la foto sarebbe stata uno strumento valido per evidenziare i risultati. Invece niente, solo che sono state le truppe di occupazione inglesi a realizzare le opere. In India ci sono 6.000 ponti che hanno più di 140 anni, ancora inossidabili, costruiti quando le innovazioni tecnologiche erano ancora in fase di assestamento persino in Inghilterra. Inoltre, nelle colonie erano momenti di grande povertà, senza alcuno sviluppo industriale, eppure venivano costruiti maestosi ponti in curva, in pietra naturale, disposte in un allineamento perfetto. Come è stato possibile? Costruire un ponte oggi sembra facile, perché la messa in opera è l’atto finale di processi di produzione e lavorazione del ferro già condotti altrove. Ma il ferro da solo richiede una lunga serie di operazioni che vanno dall’estrazione del minerale alla fusione in fonderia, alla riduzione chimica in altiforni a temperature di 2.000 gradi centigradi, per ottenere la ghisa di prima colata, seguita da una seconda fusione, fino all’acciaio. La civiltà moderna utilizza l’acciaio Corten dagli anni 30, ma solo dagli anni 70 è impiegato su larga scala. Ha un rivestimento di ossido marrone che protegge l’acciaio sottostante. Invece l’acciaio delle strutture di cui stiamo parlando non aveva protezione, ma difficilmente arrugginiva. Non necessitava di carteggiatura, sabbiatura e verniciatura antiruggine. Oggi la ruggine è un grosso problema nel mondo moderno occidentale. Le auto arrugginiscono dopo pochi anni, ma quei ponti no. Eppure non sono stati sottoposti a manutenzione per tutto il periodo post-coloniale. E dovrebbero essere strutture messe su da lavoratori locali con impalcature di legno. Come sarebbe stato possibile bullonare o saldare insieme i vari pezzi, con migliaia di fori da portare a termine senza trapani elettrici? In conclusione, chi ha costruito veramente tutti questi ponti, su tutta la Terra, e quando? Chi c’era prima in Africa, India, America, che poi è scomparso? Chi ha lasciato questa eredità senza nome? Il Ponte Dona Ana, a Villa de Sena, Mozambico, lungo 3670 metri, 40 archi. Old Naini Bridge, 1 km, pilastri in acqua, niente ruggine, con ferrovia in tempi in cui c’erano solo carrozze trainate da cavalli. Hardinge Bridge, Bangladesh, 1,8 km, 15 campate. Altenbekener Viaduct, Germania, 24 arcate, 480 metri in curva. Victoria Falls Bridge, confine fra Zimbabwe e Zambia, niente ruggine, alto 160 metri, come il ponte di Solingen, vicino Colonia, e come la Torre di Blackpool, Inghilterra. C’erano forse delle gru alte 200 metri?

Il ponte sulle Cascate Vittoria | Exploring Africa
Il ponte sulle cascate Vittoria.

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